Se stiamo insieme ci sarà un perché... (vademecum per fotografi precari)

Forum “Prospettive Variabili _ de/Generazioni della fotografia italiana contemporanea”, 18-19 maggio 2012, Bari

Quelle che dirò saranno probabilmente delle ovvietà per molti dei presenti, frasi ascoltate e ripetute più volte da tutti noi che lavoriamo nel campo della fotografia in Italia. Ho provato a metterle insieme in un ragionamento di ampio respiro, sperando di non essere frainteso o magari ‘scomunicato’ da chi potrà sentirsi tirato in ballo, suo malgrado. Fortunatamente, come ha detto un mio amico, nei prossimi giorni potrò subito verificare l’esito del mio intervento da quanti chiederanno o elimineranno la mia amicizia su Facebook…

Quando ho detto in giro che tra gli invitati a questo convegno ci sarebbero stati Roberta Valtorta e Vincenzo Castella, qualcuno mi ha chiesto se avessimo bisogno di portare gli ‘zii’, perchè non eravamo in grado sostenere da soli le nostre idee. Se davvero vogliamo aprire finalmente una nuova stagione di dialogo, io credo invece che qualunque confronto debba essere fatto per quanto possibile dal vivo e non a distanza, soprattutto quando si esprimono idee e posizioni anche diverse. Ma trasformare tutto in una questione generazionale o anagrafica, in un paese dove si è ‘giovani autori’ fino a cinquant’anni, non ha molto senso, se poi i problemi sono comuni. Pensiamo, per esempio, al grande seguito che ha avuto il compianto Ando Gilardi su Facebook e YouTube negli ultimi anni, a dimostrazione che l’età è davvero marginale quando c’è capacità e contenuti da comunicare. Tra me e Vincenzo Castella ci sono circa vent’anni di differenza, più o meno gli stessi che separano lui da Mimmo Jodice. Certo alcuni componenti dei gruppi invitati a confrontarsi domani mattina hanno già dieci anni meno di me e mettiamo anche che, come mi hanno detto una volta, io sia ‘il più vecchio dei giovani’ o magari ormai ‘il più giovane dei vecchi’; proviamo allora a spostare la questione su questioni concrete.

Penso che molti di voi conoscano il progetto Ereditare il paesaggio, una mostra collettiva ed un libro, usciti tra il 2006 e il 2008. In quella occasione alcuni maestri della fotografia italiana erano stati chiamati ad indicare due autori più giovani, che potessero forse raccogliere e portare avanti questa presunta eredità. Ora, voglio essere un po’ provocatorio visto che a quel progetto ho partecipato anch’io, ma la netta sensazione è che in molti casi i maestri sembrassero di gran lunga più freschi e più giovani dei loro stessi discepoli. Se quello è il meglio che la nostra generazione è in grado di produrre, allora questi signori resteranno sulla breccia ancora per molti anni e forse bisognerà pensare in fretta a processi di mummificazione o clonazione per avere delle chance a livello internazionale. Di fronte ad una lunga serie di problemi, troppo spesso affrontati in maniera dogmatica o con visioni un po’ datate, oggi cominciamo a chiederci di chi sia la colpa. Bhè, credo prima di tutto nostra e dell’intero ‘sistema fotografia Italia’, ammesso che l’espressione sistema sia quella giusta, che non è riuscito in questi anni a fare i conti col proprio passato recente, ma questa è situazione comune anche a molti altri ambiti del nostro paese, e in secondo luogo non posso non dividere parte della responsabilità anche tra chi si è guadagnato il titolo di ‘maestro’ senza assumerne anche i doveri.

Meglio non toccare in questo momento il tasto dolente della formazione, che però rimane ancora oggi la vera emergenza nazionale ed un gap troppo alto che paghiamo nei confronti di molti colleghi europei. Formazione che non vuol dire solo scuole, ma anche luoghi e possibilità di confronto, di scambio anche internazionale e soprattutto di sostegno istituzionale, che non significa garantirsi una pensione minima attraverso qualche acquisizione o committenza pubblica, ma reali occasioni di crescita per un autore, che è parte di un sistema (torna questa parola) che funziona e di cui quindi è attore lui stesso …

La soluzione più ricorrente che sento ripetere da anni, non solo dai miei coetanei, è: “Dobbiamo unirci, metterci insieme. Solo come gruppo si avranno più chance di uscire fuori!” Sì, va bene, rispondo io, ma per andare dove e, soprattutto, per fare cosa? Siamo così sicuri che quando arriviamo a contarci ci siamo davvero? Negli ultimi anni ho sempre cercato, nel mio piccolo, di condividere e costruire relazioni con altri, sia in Italia sia all’estero ed ho provato più volte a coinvolgere gli autori che sentivo più vicini in progetti e percorsi che potessero aiutarci ad affrontare questioni da troppo tempo rimandate e rimaste senza risposta, ma quando si arrivava al momento di mettersi a lavorare per davvero, quelli che rimanevano erano i soliti ‘quattro gatti’, che poi sono gli unici con cui ho mantenuto i rapporti più stretti di vera amicizia e di serio confronto. Con questo voglio dire che non dobbiamo nasconderci dietro un dito. Il nostro è un lavoro solitario che ci spinge naturalmente all’individualismo e che, in un mercato ristretto e povero come quello italiano, può essere spesso fonte di invidie e dissapori. Certo paghiamo anche l’assenza di qualcuno che si prenda la briga e la responsabilità di analizzare, in maniera sistematica, quel che è successo nella fotografia italiana degli ultimi 30 anni. Forse l’unica che ci ha provato è stata Roberta Valtorta e questo, piaccia o non piaccia, è il motivo per cui la sua presenza in discussioni di questo genere rimane ancora più che mai necessaria. In un recente convegno alla Fondazione Forma di Milano, parlando del perché non sia possibile fare una lettura della situazione attuale della fotografia in Italia, Francesco Zanot ha detto: “Manca un metodo, manca una storiografia, mancano dei precedenti, manca una sistematizzazione di quello che sta accadendo.” E a proposito della fotografia di luoghi, che ci sta più a cuore, qualche mese fa mi ha colpito un commento di Michele Smargiassi sul suo blog: “L’impressione è che la fotografia serva per indagare le mutazioni del paesaggio molto meno di quanto il paesaggio serva per indagare le mutazioni della fotografia.” Credo non si possa negare che molte committenze pubbliche degli anni passati siano servite più ai fotografi che vi hanno lavorato, piuttosto che alle motivazioni della committenza stessa. D’altronde esse nascevano spesso da esigenze di consenso degli amministratori locali, che avevano promosso interventi di riqualificazione urbana di molte aree industriali dismesse. Venuta meno questa motivazione, decade anche la necessità delle campagne fotografiche. Tutto questo impone un ripensamento generale anche sul ruolo del fotografo. Paul Graham sostiene che ci troviamo in un’epoca post documentaria in cui la posizione della cosiddetta “fotografia diretta nel mondo dell’arte, ricorda la parabola di una comunità isolata, che si è sviluppata mangiando patate tutta la vita e nel momento in cui le viene presentata una mela, la considera irragionevole ed inutile, perché non ha lo stesso sapore della patata.”

Personalmente ho sempre avuto molta diffidenza verso quei progetti in cui un’artista arriva in un luogo e vuole insegnare agli stessi abitanti come viverlo o vederlo, come del resto non ho mai creduto alla favola del fotografo predestinato o, ancora peggio, come si diceva un tempo, unico depositario in grado di far vedere la realtà con altri occhi. Già Italo Calvino, nel suo racconto L’avventura di un fotografo, credo avesse chiarito con lucidità i rischi del mestiere. A questo proposito, condivido i timori di Antonello Frongia quando dice che “il paesaggio rischia di tornare a essere un genere artistico (al pari della natura morta o del nudo) – una modalità tipicamente pittorica che nel corso di due secoli la fotografia aveva utilmente debellato”, soprattutto alla luce di una certa deriva neo-pittorialista e formale, attenta più alla confezione che al contenuto, che riduce tutto ad un semplice, anche se molto affascinante, esercizio di stile. Sembra che il paesaggio sia sempre più un ‘effetto’, quasi come un’app dello smartphone, da applicare a qualsiasi immagine, in cui non è più l’autore a decidere, ma è lo stile a farlo per lui. Parafrasando Franco Vaccari, potremmo dire che siamo di fronte ad un ‘inconscio estetico’. Sempre Frongia aggiunge che “assistiamo oggi ad una paradossale crisi di crescita della fotografia italiana, che allo sviluppo esponenziale di opportunità produttive (gallerie, musei, festival, libri) non sembra in grado di accompagnare il riconoscimento di una radice comune (koinè) o anche solo la responsabilità del dibattito.” Non possiamo far finta che tutto ciò non derivi da accadimenti del nostro recente passato, con cui non si è fatto i conti, da un’anti estetica nata per contrastare lo stereotipo della bella cartolina, divenuta a lungo andare una nuova estetica, stereotipata a sua volta. Lazlo Moholy-Nagy ha detto: “Gli illetterati del futuro saranno coloro che non sapranno usare la macchina fotografica”. Io credo che oggi dovremmo sostituire alla macchina fotografica la parola immagine per iniziare a pensare che la discussione, per essere produttiva, dovrebbe allargarsi ad un campo molto più ampio, fino ad arrivare a porsi il problema dell’estrema necessità di un’educazione visiva, soprattutto negli operatori. Registrata, scaricata, condivisa, zippata, bloggata, l’immagine è oggi il modo più semplice e diretto per scambiare con gli altri la propria vita, affermando così la propria esistenza. Potremmo definirlo un fenomeno autopoietico, mai come in questo momento diffuso ed alla portata di tutti, capace di creare e rinnovare se stesso all’infinito, in maniera a volte incontrollata ed imprevedibile. Alcuni anni fa, uno dei nostri maestri, mi diceva di non vedere più in molti giovani autori dei fotografi, ma solo dei comunicatori ed il fatto che sottolineasse quel ‘solo’ dimostrava che la considerasse una pericolosa involuzione. Inutile dire che la pensavo e la penso in modo totalmente contrario e che anzi considero questa come un’indubbia evoluzione o meglio una positiva ‘de/generazione’ rispetto al passato.

Detto ciò, nonostante molti si affannino a darla per spacciata, la Fotografia è viva più che mai. Probabilmente sono i fotografi ad essere a rischio di estinzione, soprattutto in Italia, in particolare i più giovani. Le istituzioni latitano, la formazione è in piena emergenza e molto spesso la cultura fotografica è affidata a personaggi auto-investiti di ruoli guida basati sul nulla. Le ‘parrocchie’, come le chiamo io, in cui è spartita la fotografia italiana hanno prodotto poco o niente ed esportato all’estero ancora meno, gestite (male) da molti maestri che hanno preteso il titolo e tutti gli onori, dimenticandosi però degli oneri conseguenti, producendo così tanti cloni fotografici, efficaci come pubblicitari dei propri referenti, molto meno credibili come autori indipendenti. Ed in questa storia siamo tutti coinvolti, nessuno escluso. Detta così sembrerebbe l’apocalisse, invece no, perché ci sono comunque ottimi autori, sicuramente sotto stimati ed abbandonati a loro stessi, anche di generazioni molto diverse. La cosa sconfortante è che questi esistano non “grazie” ad un sistema, ma “nonostante” questo. Prima si parlava di immagine precaria, poi di paesaggio precario, ora ci mancava solo il ‘fotografo precario’ e ci siamo arrivati. Dobbiamo uscire dall’autoreferenzialità, dall’effetto riunione di condominio, smetterla di pensare che siano gli altri a non capirci e costruire una vera rete di condivisione, recuperando un’onesta capacità critica. Penso che si dovrebbe far di tutto per evitare errori che già troppo spesso si sono ripetuti in passato. Penso ad una piattaforma aperta al contributo di tutti, che preveda magari un momento di incontro a cadenza annuale, in cui si possano confrontare idee e posizioni anche diverse, ma arrivando ad elaborare proposte e strategie comuni. Questo è ciò che vorrei uscisse da questi due giorni a Bari. Come ha detto qualcuno, l’arte nasce sempre da un ‘NO’. Chiariti i problemi occorre proporre delle soluzioni.

Voglio chiudere con alcune parole di Luigi Ghirri del 1984, che oggi suonano profetiche: “Le recenti tecniche visuali hanno provocato una mutazione della qualità dello sguardo, le immagini elettroniche, le tecniche video sembrano relegare la fotografia nella soffitta dell’antiquariato, ma nonostante tutto, io credo che abbia ancora davanti a sé molto spazio. (…) Non credo che tutto sia un grande e colossale paesaggio di passaggio, e che tutto stia scomparendo al nostro sguardo, bisogna però passare dalla fotografia di ricerca alla ricerca della fotografia. Ricercare una fotografia che indichi non solo nuovi metodi per vedere, nuovi alfabeti visivi, ma soprattutto una fotografia che abbia come presupposto uno stato di necessità.” Ora che, come sembra, la tendenza ha esaurito ogni tipo di ricerca, a questa necessità credo si debba aggiungere anche un altro concetto: l’immagine utile. Un’utilità che dovrebbe andare oltre il semplice contesto, non preoccupandoci tanto di come le immagini verranno usate, quanto piuttosto di chi le userà o guarderà. Ecco che allora oltre a necessità ed utilità, ha senso cominciare a pretendere serietà, reale capacità, chiarezza di contenuti, in una sola parola educazione, come unica forma possibile di resistenza.