“Avevano l’idea che, continuando a remare, sarebbero arrivati da qualche parte.”
Gianni Celati, Narratori delle Pianure

 

Prologo.
Esterno giorno.
Spiaggia di Giardini Naxos in Sicilia. È una giornata di ottobre, fresca e ventosa. Il cielo è nuvoloso, minaccioso di pioggia che sa di autunno. La spiaggia è punteggiata di rocce nere, vulcaniche.
Un uomo con i capelli bianchi sta in piedi e osserva il mare. Ha con sé della vernice a tempera, bianca anche quella, e un pennello. D’un tratto comincia a disegnare dei segni bianchi sulle rocce nere. Uno, due, cinque, dieci, cento. Per diverse ore continua senza sosta a tracciare lo stesso simbolo, ripetuto. Una sorta di lettera “V”. Sembra una danza, una specie di rito. I segni sembrano uccelli o una strana scrittura e quei sassi neri paiono tante lapidi di un cimitero anonimo, quasi il negativo fotografico dei bianchi memoriali dei soldati caduti in guerra. Forse anche qui è in corso una guerra, ma a nessuno interessa vederla. Alla fine tutti quei segni bianchi sui sassi neri, saranno cancellati dalla pioggia o dalla prima mareggiata. E tutto sarà come prima. Come se nulla fosse accaduto. Sì, forse sarebbe così, se non ci fosse la fotografia. L’uomo con i capelli bianchi è in realtà un artista e quello che ha appena realizzato è un intervento, un’opera performativa, di cui rimane traccia in immagine. L’opera si intitola “Segnimigranti” e l’artista è Mario Cresci.

 

Atto primo.
Antefatto.
Ho conosciuto Alessandro Cirillo nel 2006 proprio grazie alla comune amicizia con Mario. Le cose non accadono mai per caso. Negli anni abbiamo collaborato spesso, su diversi progetti. Condividiamo la stessa passione per la fotografia, che consideriamo a tutti gli effetti un ambito della ricerca contemporanea e sentiamo forte la necessità di promuovere lo studio della cultura visuale, attraverso la didattica, la formazione, l’organizzazione di eventi culturali, oltre che con i nostri progetti artistici. Di Alessandro apprezzo soprattutto la grande umanità e l’integrità morale, che animano ogni sua azione, senza dimenticare una buona dose di ironia, che credo gli consenta di affrontare la vita e la professione con la giusta leggerezza. Devo confessarlo subito, sono stato io per primo a spingerlo a pubblicare questo libro e ad insistere fin dall’inizio perché potesse dare una veste editoriale ad un progetto che mi aveva profondamente colpito. Nella primavera del 2017, Alessandro Cirillo viene invitato a tenere un corso di fotografia presso un centro di prima accoglienza per immigrati, come ne esistono diversi in Puglia. Ma questo ha qualcosa di particolare visto che si tratta di un ex villaggio turistico della provincia di Brindisi. Il classico villaggio vacanze per famiglie, vagamente decadente con le sue architetture gialline, le mattonelle azzurre e le statue in gesso, un tempo bianco, adesso ingrigite dal tempo. Un luogo surreale e metafisico, che sarebbe molto piaciuto ai fotografi italiani degli anni ‘70/’80. Il villaggio ospita un centinaio di ragazzi o giovani adulti che provengono da diverse parti dell’Africa e dell’Asia. Sono arrivati fortuitamente nel nostro paese dopo lunghi ed estenuanti viaggi, l’ultima parte dei quali, quasi sempre, attraverso il Mar Mediterraneo, dove purtroppo molti di loro perdono la vita nei numerosi naufragi. In quel contesto, ripeto, già piuttosto fuori dal comune, Alessandro incontra Pauline Dumora, coreografa francese che da poco aveva iniziato un laboratorio teatrale con una decina di ospiti. Il suo metodo si propone di favorire la riappropriazione dell’identità e della propria storia personale attraverso esercizi respiratori e posturali, invenzione di giochi che riportino alla mente dei partecipanti la propria infanzia, recitazione più o meno libera di quelli che erano stati i momenti salienti della propria vita fino al viaggio per mare in cerca di salvezza. Il fotografo chiede di poter seguire questo percorso realizzando delle fotografie e lei, insieme ai protagonisti, acconsente con molto entusiasmo. È lo stesso Alessandro a spiegare i sentimenti che lo muovevano: “Iniziai a scattare cercando di non realizzare un reportage di quello che stava accadendo, ma piuttosto una serie di immagini che, prendendo spunto dalle varie fasi del percorso, diventasse a sua volta una visione di ciò che era per me quel dramma. Volevo che le fotografie fossero slegate dagli aspetti più contingenti di quella particolare situazione e che acquisissero una identità propria capace di far pensare a quelle vite frammentate e spesso tragiche come ad un flusso di sensazioni, di pensieri, in grado a loro volta di attivare un qualche tipo di riflessione sull’identità e sulla storia che tocca in sorte ad altri esseri umani, senza spogliarli della propria dignità. Un lavoro sulla riappropriazione di sé e che avesse sullo sfondo il dramma di quelle vite, ma anche un esito legato ad un riscatto, ad una speranza di vita ancora possibile.”

 

Interludio.
Bianco.
Nel 1840, giusto un anno dopo la presentazione ufficiale dell’invenzione della fotografia all’Accademia delle Scienze di Parigi, Hippolyte Bayard, uno dei pionieri della fotografia, realizza una delle sue immagini più famose, “Self Portrait as a Drowed Man”. Come recita il titolo, la fotografia lo ritrae riverso su una sedia con le mani incrociate, a torso nudo e con gli occhi chiusi, in parte avvolto in un lenzuolo bianco, quasi fosse un sudario, appena ripescato dall’acqua in cui sarebbe annegato. L’immagine è accompagnata da un breve testo, umoristico ma molto pungente, in cui l’autore protesta contro il mancato riconoscimento della sua invenzione: “Il cadavere del signore che vedete qui è quello di Monsieur Bayard, inventore del procedimento che avete appena visto. Per quanto ne so, questo ingegnoso e infaticabile sperimentatore si è occupato per circa tre anni di perfezionare la sua scoperta. Il governo, che ha dato molto a Monsieur Daguerre, ha detto che non può fare nulla per Monsieur Bayard, e il disgraziato si è annegato. Oh, i capricci della vita umana!” A tutti gli effetti, questa immagine è considerata come la prima fotografia staged, messa in scena a favore di camera. Allo stesso tempo, essa è una forma di fiction o rappresentazione teatrale in cui il soggetto recita una parte, che può essere considerata reale grazie alla veridicità che siamo soliti attribuire a una fotografia, come testimonianza di un fatto realmente avvenuto.
A pagina 11 del libro Let Us Now Praise Famous Men [1] di James Agee e Walker Evans è pubblicata la fotografia “Squeekie Burroughs Asleep, Hale County, Alabama, 1936”. Vi è raffigurato un bambino piccolo che sta dormendo supino su un materassino bianco posto sul pavimento di legno scuro dell’umile casa della famiglia Burroughs. Un lenzuolino sdrucito, bianco anch’esso, gli copre il volto e parte del corpo, lasciando scoperte le gambe e la mano sinistra. Anche se il titolo dell’immagine ci dice che il bambino sta dormendo, non possiamo liberarci dell’inquietudine di vederlo rappresentato come un cadavere. Nella pagina a fronte del libro un’altra immagine iconica di Evans ci mostra l’interno della cucina della famiglia Burroughs, spoglia ma perfettamente ordinata e pulita, in cui un canovaccio bianco, ancora, penzola attaccato ad un chiodo dallo stipite della porta. Nell’accostamento delle due immagini è come se le linee delle assi di legno della parete nella prima, diventassero le assi del pavimento su cui è coricato il bambino.
Pur mantenendo sempre una certa distanza, le fotografie di Walker Evans denotano una partecipazione alla scena inquadrata, un estremo rispetto per il soggetto, una relazione mossa dalla pietas. “Le sue sono carezze fatte al mondo”, come lo scrittore Gianni Celati aveva detto al fotografo Luigi Ghirri. [2]
La fotografia, in generale, proprio per la natura di riferirsi sempre ad un “è stato”, ha inevitabilmente a che fare con la morte, sia essa messa in scena o evocata. Dormire, abbandonarsi al sonno è forse l’esperienza più vicina alla morte che possiamo provare e per questo può risultare disturbante.

 

Atto secondo.
Farsi immagine.
Vorrei dire cosa mi ha colpito delle immagini di Alessandro Cirillo. La prima cosa è che non hanno nessuna pretesa di raccontare una storia e non sono realizzate con questa finalità. La fotografia è forse il medium meno adatto per raccontare, anche se è stata ed è spesso ancora usata apparentemente per farlo. Sappiamo che l’immagine al più mostra, ma non dimostra nulla. Per farlo ha bisogno di un testo o di una didascalia. Ma, soprattutto, ha necessità di essere inserita in un contesto che ne faciliti la “lettura” o, per meglio dire, che ne renda evidente, o quantomeno più chiara, la comunicazione. La fotografia è un medium camaleontico, capace di assumere immediatamente le sembianze di ciò che le sta intorno, con una estrema capacità di adattamento al contesto. Come direbbe Marshall McLuhan, ogni medium crea un environment, un ambiente, che viene plasmato, scolpito e modificato dal medium stesso man mano che ne facciamo uso.
Anche il teatro crea un ambiente, attraverso un tempo e uno spazio scenici. È una scena che richiede la partecipazione attiva dell’osservatore. Nel teatro (così come nella performance) non viene sollecitata solo la capacità di immaginazione, di creare un’immagine, ma esiste anche una componente di immedesimazione, di “farsi” immagine, come se ciò che si fa o si vede diventasse immagine materiale (con un proprio corpus e una propria presenza). L’immaginazione ci consente di creare un’immagine di noi o di qualcosa che ci appartiene e di guardarla fuori da noi, come si usa in psicoterapia per superare certi traumi o come accade normalmente nella pratica artistica.
L’immedesimazione agisce in maniera inversa, invitandoci ad entrare nell’immagine, a farci noi stessi immagine. Diventare immagine, essere immagine. Forse è proprio questo ciò cui aspirava Yves Klein quando a Parigi nel 1960 mette in scena il suo “Saut dans le vide”. Si è appena gettato nel vuoto, fluttuando a mezz’aria e lì è rimasto, sfidando le leggi della fisica. Il suo corpo, il suo gesto è diventato immagine. Il corpo, i corpi sono i soggetti preponderanti delle immagini realizzate da Cirillo. Li vediamo a frammenti, quasi fossero tanti piccoli pezzi che dobbiamo ricomporre per ottenere un’immagine unica. Li vediamo spesso a terra, sdraiati, coperti di sabbia bianca, immobili, gli occhi chiusi. Perché? Come sempre, le fotografie attivano un immaginario già presente nella mente di chi guarda e quei corpi che sembrano dormire ora sono quelli annegati nel Mar Mediterraneo, ripescati e avvolti in un sacco bianco o dal mare tragicamente restituiti come relitti sulle spiagge. La cosa strana è che vediamo queste cose, pur non vedendole realmente nelle immagini del libro, quasi come un riflesso incondizionato o una cecità di ritorno. Mi viene in mente ciò che scriveva Saramago: “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.” [3] Ed è questa un’altra cosa che mi colpisce profondamente di questo lavoro, che costringe una riflessione più complessa, attraverso una visione assolutamente inedita dell’immigrazione, lontana dalla cronaca, dal pietismo o dall’emergenza. Credo che le fotografie di Alessandro siano piuttosto parte di un’unica azione performativa, che non è solo quella che sta osservando, ma di cui anche lui è attore, adottandone in qualche modo la pratica. Non solo i corpi dei migranti diventano immagine, ma le sue immagini plastiche di quei corpi diventano a loro volta un corpo unico, assumendone la materialità e la agency. Quando guardiamo un’immagine, qualsiasi immagine, dovremmo imparare a chiederci non tanto cosa ci racconta, questione ormai quasi marginale, quanto piuttosto come quell’immagine agisca o, come direbbe Mitchell [4], cosa voglia da noi. Per me questo lavoro dà conto di un modo diverso di usare la fotografia documentaria, o per meglio dire lo “stile documentario”, dimostrandone le possibilità fuori dal retaggio novecentesco che oggi passa sotto il nome di storytelling. Queste immagini hanno indubbiamente una carica politica, non solo rispetto al tema dell’immigrazione, ma ad un livello più ampio che investe la cultura visuale e l’uso delle immagini, compresa la loro utilità. Ciò che mi pare rilevante è che pur rimanendo fedeli all’idea di fotografia come prodotto della relazione tra fotografo e oggetto, si provi piuttosto a “sviluppare nuove forme di rappresentazione che traggano la loro rilevanza dall’attrito e dall’impegno con la realtà sociale e politica. (…) Non si tratta di illustrare il mondo, ma di fornire standard sensoriali per giudicarlo.” [5] È un modo di procedere che, proprio come nel teatro, questiona e mette in gioco l’osservatore, esigendo da lui una partecipazione attiva. Chi guarda queste immagini lo fa attraverso gli occhi dell’autore, provando la sua stessa empatia. Si immedesima in lui, ma anche nelle persone ritratte, nella loro esperienza drammatica di vita, condividendo un percorso di conoscenza. È un coraggio di conoscere, “il coraggio di incorporare nella nostra memoria un sapere che, una volta riconosciuto, elimina quel tabù che l’orrore, sempre paralizzante, seguita a far pesare sulla nostra intelligenza della storia. In questo coraggio risiede già la capacità dell’immagine di salvare il reale.” [6]

 

Andrea Botto
Prefazione al libro Vengono dal mare di Alessandro Cirillo, Seipersei, 2023

 

 

 

[1] James Agee, Walker Evans, Let Us Now Praise Famous Men, Houghton Mifflin, 1941.
[2] Palo Costantini / Giovanni Chiaramonte (a cura di), Luigi Ghirri. Niente di antico sotto il sole. Scritti e immagini per un’autobiografia, SEI, 1997, p. 71.
[3] Josè Saramago, Cecità, Einaudi, 1996, p. 315.
[4] W.J.T. Mitchell, “Che cosa vogliono le immagini?”, in Andrea Pinotti / Antonio Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina Editore, 2009, p. 99.
[5] Erika Balson / Hila Peleg (a cura di), Documentary Accross Disciplines, HKW Berlin / The MIT Press, 2016, p. 6 (traduzione dall’originale in inglese).
[6] Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Raffaello Cortina Editore, 2005, p. 221.