Verità e fili elettrici

pubblicato in "Archphoto.it / rivista digitale di architettura, arti visive e culture", 2002

Luigi Ghirri diceva che ogni luogo ha un lato privilegiato per essere guardato, come se, in una sorta di atteggiamento volontario, esso stesso si donasse all’occhio dell’attento osservatore in particolari momenti ‘magici’, frutto dell’esaudirsi contemporaneo di eventi diversi ed irripetibili. Mimmo Jodice, dal canto suo, sostiene di essersi trovato più di una volta di fronte a situazioni in cui sembrava che un fatto accadesse solo grazie alla sua presenza, come se quel momento aspettasse proprio lui e, sentendolo vicino, avesse deciso di ‘chiamarlo’ per farsi ‘riconoscere’. Come scriveva Gianni Celati in Verso la foce, “noi siamo attratti da ciò che ci chiama e capiamo solo quello”. Ora, queste affermazioni contengono senz’altro un fondo di verità e rappresentano un sogno molto romantico, che negli ultimi anni credo sia stato un po’ travisato.

Probabilmente a molti sarà capitato di assistere alla ‘beatificazione’ di un fotografo riuscito nell’impresa di rendere ‘vivibile’, nelle proprie immagini, la più degradata delle periferie o ai deliri di onnipotenza di alcuni autori certi di essere gli esclusivi depositari di tali poteri, fino ad affermare, nemmeno tanto inconsciamente, che senza il loro occhio non esisterebbe il mondo esterno. Questo è naturalmente un paradosso, ma sottolinea ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, come al giorno d’oggi l’immagine sia più credibile del soggetto rappresentato, il quale esiste solo in virtù della presenza e della fruizione del suo doppio. Nel caso dell’informazione poi, si può perfino affermare che, se un fatto non è stato documentato e trasmesso, non è mai accaduto. Penso che il fotografo sia da sempre combattuto tra l’esigenza di descrivere e quella di rappresentare. Le vie di ricerca, come sappiamo, possono essere tante, frutto di faticose mediazioni e compromessi, a dimostrazione che, secondo il più banale dei luoghi comuni, la verità sta sempre nel mezzo. Troppo spesso, però, il raggiungimento di uno status di autore coincide con la ripetizione di uno stile precostituito dove ogni lavoro è uguale al precedente, lo sguardo diviene autocitazione e la ricerca una facciata priva di contenuti. Credo che questo sia un rischio che corrono un po’ tutti, in modo particolare i giovani che vedono nello scimmiottare i ‘grandi’ una veloce e comoda via verso la notorietà. Il mercato impone il raggiungimento di uno stile personale che, una volta ottenuto però, può decretare la fine della ricerca. E’ come il cane che si morde la coda.

Quale strada seguire allora per uscire da questa situazione?

C’è chi parla di ‘sguardo democratico’ come una strada possibile, ma credo che, seppur affascinante nella teoria, essa rimanga, nella pratica, solo un’illusione al limite della mistificazione. Il semplice atto di posizionare il cavalletto ci ha già imposto una scelta, per quanto minima, comunque abbiamo già tracciato una strada. Se si pensa che ogni soggetto abbia la dignità di essere guardato senza alcuna gerarchia di valori siamo già, come scriveva Calvino, “sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare più che si può, e per fotografare più che si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla follia”. A questo proposito ricordo che, durante una festa, ad un suo coetaneo che aveva appena baciato appassionatamente la propria moglie e lo sfidava a fare lo stesso con la sua, mio nonno aveva risposto prontamente che certe cose vanno fatte al buio, e non per un fatto di pudore, ma per soddisfare oltre l’occhio anche la mente. Credo che a volte chiudere gli occhi sia un sano esercizio per tutti, ancor di più per il fotografo che, annullando per un attimo lo sguardo, riacquista e soddisfa anche gli altri sensi. Un po’ come accade in quei giochi dove, osservata un’immagine per alcuni secondi, si devono ricordare il maggior numero di dettagli possibile. La fotografia, moderna ‘macchina della memoria’, ci permette di vedere il mondo e, chiudendo gli occhi, di percepirne i suoni, le parole, i profumi. Perché, come scrive il regista Andrej Tarkovskij, “un uomo privo della memoria è in balia di un’esistenza illusoria”.

Ecco allora che fare una scelta è ancor più determinante, contro l’omologazione dello sguardo e dei soggetti, contro quella ‘democraticità’ sinonimo di neutralità, di estraneità ai fatti del mondo, che è un ‘tirarsi fuori’ per non aver commesso alcuna colpa, non schierarsi seguendo ed assecondando gli eventi. Credo invece che sia di vitale importanza scegliere, anche se è difficile capire bene quali siano le parti in gioco e cosa significhi stare da una parte o dall’altra. In un mondo in cui, come ha scritto William Guerrieri, “nessuno può dirsi neutrale”, è facile sentirsi perduti e senza punti di riferimento. Solo una consapevole onestà dello sguardo ed una sincerità nella ricerca possono portare al raggiungimento dello scopo. Accettare di rimettersi in gioco, riscoprire quel piacere di guardare il mondo “come se fosse la prima e l’ultima volta”, sapendo che questo rimane comunque un gesto “necessario”, potrebbe risultare determinante in futuro per ritagliarsi uno spazio, per avere e coltivare una propria individualità, un pensiero libero dai condizionamenti della cosiddetta coscienza collettiva. Allora vedremo che a volte la verità non sta nel mezzo, ma assomiglia molto a quei fili elettrici in alcune fotografie che finiscono sempre in un angolo. Ad ognuno il compito di ritrovare la propria.